Luigia Sorrentino, La nascita, solo la nascita

20-09-2009
20/09/2009 - Corriere del mezzogiorno - Napoli
“I cento canarini gialli” liberati da Luigia Sorrentino, di Ugo Piscopo   
 
Sono tavolette di terracotta appese in un antico tempio le poesie di Luigia Sorrentino comprese nella recente silloge, La nascita, solo la nascita (prefazione di Maurizio Cucchi, San Cesario di Lecce, Manni, 2009, pp. 87). Fanno, in realtà, corpo, non solo nella verniciatura (scura) di superficie, ma anche nell’innervatura plastica con la materia spessa e densa che è alla loro base, cioè a fondamento sia della visione del mondo, sia della mimesi con la stessa coerente. Non è un caso che stilemi e andamento fondamentale delle composizioni, che vanno dal 2003 al 2008 e che in gran parte sono state già pubblicate in fogli e riviste prestigiosi e hanno raccolto consensi da parte di critici e poeti illustri, si dispongano verso svolgimenti poematici, in un continuum di invenzioni e di intrecci che prendono autonomia dalla propria sorgività. Qui non si fa alcuna concessione al lirismo e al soggettivismo, ma di contro si presta ascolto unicamente ai sordi e faticosi processi della complessità. L’attenzione è tutta interna a un ritmo vischioso, anonimo, oscuro dell’esistenza, che intanto entro le sue vene porta sussulti, straniamenti, domande di luce e di catarsi sul versante mistico, come nel poemetto Le onde della terra (p. 15 sgg.), dedicato al terribile evento del terremoto del 1980 in Irpinia e Basilicata. Dove figurano brani intriganti come il seguente: “Lo stretto reticolato della felce è arcaico come questo vulcano confinato nell’asperità nello stratagemma di un dolore esploso all’improvviso al centro con la perturbazione che ha portato insistenti scrosci di piogge sul vigneto nella colonna vertebrale al titanio la gazzarra dei cento canarini gialli” (p. 26).
                                                                   
 
 

01/08/2009 – Poeti e Poesia
Intorno a questo altrove, di Fabrizio Fantoni

Già con la prima raccolta di poesie C’è un padre (Manni, 2003) Luigia Sorrentino aveva evidenziato una poetica della rivelazione, alla ricerca di una realtà che parlasse al di là del visibile: una poesia dall’ “incanto lucido, di evento scolpito nel suo schema figurativo” come la definì Milo De Angelis già nel 1987 quando per primo lesse alcune liriche poi confluite molti anni dopo nella raccolta d’esordio. In quelle primissime poesie Luigia Sorrentino aveva evidenziato un dire oracolare e solenne, un dire che dicendo, pone-in-nome e determina dal profondo rappresentando, attraverso forti condensazioni analogiche, “le cose nel loro amoroso in sé” di mallarmeriana memoria.
Questa poetica del nominare – o porre in nome – che è parte integrante della poesia di Luigia Sorrentino si ritrova anche nella silloge intitolata L’asse del cuore e pubblicata in Almanacco dello Specchio 2008 (Mondadori, 2008). Dodici poesie il cui nucleo tematico è costituito, fin dal titolo, dalla ricerca dell’asse, del punto di convergenza, di stabilità e di equilibrio tra il sé e l’altro. Ma chi è l’altro? L’altro individuo non è solo colui con cui condividere la sorte dell’essere umano, ma è anche colui – quel se stesso - che dichiara una lontananza che non riesce a colmare. La distanza tra sé e il mondo può essere riempita solo dal cammino verso l’altro, intrapreso da chi ha davvero necessità di conoscere. La ricerca dell’altro diviene, pertanto, nelle poesie qui analizzate, un percorso esistenziale in cui confluisce l’esperienza dell’autrice che tenta di allacciare una relazione con l’altro che vibra e fa vibrare, con un linguaggio che utilizza e reitera l’analogia, espressione di una condizione interna, di un sentire in comunione con l’altro.
Si veda la lirica di apertura: “ con il mantello disteso sul petto/ frantuma la roccia sotto il ponte / si tiene all’abisso come sponda / sommersa, come ogni sponda erosa / corre sotto, l’acqua, giù nell’abisso /non conosce nessuno, neanche / lo spirito del fiume / manto di bronzo abita l’esilio / e piange, la casa / ogni cosa del fiume è deserta / assente ogni cosa divina / fa ritorno alla terra di sempre / la terra che esalta ogni vivente”
Il discorso fluisce attraverso un susseguirsi di determinazioni descrittive in cui ogni qualificazione di luogo, incisivamente definita, è indicazione di altro materializzazione di un paesaggio interno che si esteriorizza nel paesaggio sensibile. La forte tensione analogica che confluisce nel testo qui descritto trasporta il lettore all’interno della visione e lo fa diventare colui che vede, sente e descrive. Le percezioni visive ed uditive che provengono dall’incontro con il fiume divengono, così, il corrispettivo di un’emozione condivisa nel corpo dell’altro colta nel frantumare la roccia, nel farsi roccia, nel tenersi all’abisso, nel crearsi sponda.
Con un repentino cambiamento di soggetto “non conosce nessuno neanche/ lo spirito del fiume/ manto di bronzo abita l’esilio” lo sguardo dell’autrice si allarga alla condizione umana e la penetra, nell’abitare l’esilio insieme all’altro, e piange, l’assenza – “assente ogni cosa divina” – quel vuoto connaturato all’esistere in cui l’unica via d’uscita sembra essere il ritorno, ossia il recupero di un’identità irrimediabilmente perduta.
Nel fare ritorno alla terra, sembra suggerire l’autrice nei versi di chiusura, si compie il significato dell’esistenza: il mio altro si è rivelato nel luogo dell’origine “la terra che esalta ogni vivente” – . L’io e l’altro accresciuti dall’esperienza, si incontrano, appunto, in questo territorio comune: la Terra.
Nelle altre poesie che compongono la silloge lo sguardo poetico dell’autrice entra in un dialogo con l’altro sempre più intimista, in cui si  profila, in modo ancora più netto, la dimensione di un destino umano comune. La tensione analogica si stempera in un dire più corposo, dove il desiderio dell’altro viene affermato mediante versi connotati da una forte fisicità che fissa le immagini in un punto centrale in cui si incontrano significato, suono, ritmo:
“Il cuore pompa e rigetta / nella mano il battito si espande/la corrente spinta/sopra la cavità naturale della bocca/la costola a occhi chiusi/tra la stanza e la musica/la danza/intoccabile la frazione/ stretta nella mano/nella danza il corpo è uno /uno soltanto lo vedo è lì /basterebbe sollevargli le molte braccia /lasciarle cadere su di sé tante volte /su di te sospinto appena /tu chiamato / tu qui, alla guancia /senza palpebre tieni a te / il sogno calmo”
È il Tu generato a interrompere l’estraneità. Il Tu consapevole, cosmo-genetico, della creazione, rappresentato con la testa fra le mani del Caos che, parlando al figlio, realizza la congiunzione del cuore. È il Tu che regge l’ordine, fra sé e il mondo, “e tutto ripone al suo posto”. È il Tu - l’altro -  colui che porta la parola mancante, l’energia consapevole che si salda nel cuore del figlio, eroe di ogni azione. Il Tu generato, è, quindi, il punto centrale, l’asse, in cui vi è la pulsione della vitache insiste per essere proprio in quel punto, lì dove si realizza la congiunzione tra il sé e il mondo.
È dunque un canto cosmogonico quello della Sorrentino già evidenziatosi nella plaquette “La Cattedrale”, edita da Il Ragazzo Innocuo (Milano 2008) epoi confluita nella più ampia raccolta“La nascita, solo la nascita” (Manni, 2009). Nel poemetto La Cattedrale” composto da sei poesie scritte nel 2006, l’autrice anticipa una tematica esistenziale e ontologica – confermata dalle poesie scritte successivamente e pubblicate nell’Almanacco - in cui la necessità di ritrovarsi in un umano più consapevole si unisce alla ricerca dell’assoluto.

Nella seconda poesia “poi vedi la luce fendere il volto/ e il volto scostarsi dalla luce/ e vedi la luce cadere/ sul mosaico dorato/ accade qualcosa d’umano/ nella navata centrale rotola/ dalla cupola il volto sostenuto/ nel semicerchio/ siate colonne/ quando vi solleverete/ l’uno verso l’altro/ il volto vostro esca/ dal marmo/ e torni qui dove ora siamo”, la cattedrale, che etimologicamente è la sede della cattedra, esprime il ritorno al sacro in una grammatica della percezione in cui si verifica il meccanismo dell’”eterno ritorno” alla radice greca della lingua. “Chi dice la verità” afferma Paul Celan “ dice le ombre”.
Si avverte in questi componimenti quella “presenza materica al tempo stesso compatta e ferocemente inquieta” di cui scrive Maurizio Cucchi nella prefazione a “La nascita solo la nascita”. Il desiderio di incontrare l’altro si solidifica in quella che Cucchi definisce “una consistenza fisica densissima e mutante eppure in qualche modo impermeabile”, in una tensione tra vita e morte: “come un male sdraiato/ nelle piaghe del mondo/sogno di uscire con il giorno/ e di incontrare quei semplici/ quando eravamo/ quel vento che non riesco a pronunciare/ quando il mattino è rarefatto,/ in un filo d’alba arriva e gli alberi/ prendono il colore che vogliono/ il giorno in un segno di luna/ a dismisura s’inclina su di noi/ e guarda, qua sotto nel suo freddo/ il liquido, le tinte, i cristalli”. Questo componimento, in cui l’autrice “sogna” – desidera – di uscire con il giorno e di incontrare quei semplici” che eravamo esprime la necessità di ritornare ad una primigenia essenza, sempre cercando quello stretto rapporto tra essere e non essere, in cui, come dice Holderlin, “tutto il possibile diventa reale”.

In questa poesia il desiderio dell’unione si fa materia nella danza in cui molti corpi si fondono in uno, uno soltanto, un corpo indiviso dalle molte braccia che ricadono su di sé, che si richiudono tante volte incontrando il corpo dell’altro. Siamo nell’amorosa quiete di un abbraccio, dove tutto rimane sospeso, in uno stato di sonno vigile in cui tutti i desideri sembrano essere definitivamente appagati. Si realizza così quel momento di altissima comprensione nella congiunzione all’altro espresso in modo ancora più marcato nella poesia “se tu venissi come allora/ agile nei miei occhi/ quando mi nascondevo/ dietro i capelli/ congiunta al cielo come acqua/ la protezione più alta del cuore”: ed è ancora il ritorno, il recupero di “quell’antica unità”, per usare le parole di Platone, “il cui desiderio e la cui ricerca costituiscono quello che noi chiamiamo amore”.
La prospettiva, in questa seconda parte della silloge, continua ad essere esistenziale, tutta dominata dalla contrapposizione tra la desolazione del contingente, “il mondo che non vede”, e la ricerca di un’armonia, di un equilibrio. Si avverte nelle liriche di Luigia Sorrentino, il costante riconoscimento di un dolore “che ha attaccato il mondo” fra le cui pieghe scivola “il canto del pettirosso/ in preda alla furia mattutina”.
In tale consapevolezza l’immaginario dell’autrice regola la relazione tra sé e il mondo nella reciproca attribuzione del desiderio, da cui procedono tutti gli altri e, ponendo-in-nome, determina l’ordine simbolico che regola questa relazione:
Parli al cuore del figlio/ il mondo che non vede/ si genera da solo/ da quella caduta, la testa/ fra le mani del caos/ l’ordine che regge/ e tutto ripone al suo posto/ regge il trave della testa/ come un acrobata lo sversi/ e dalla fronte cade ancora/ cade e non annienta/ dalla vetta che i secoli/ raggiungono, nella guarigione/ nella benda l’ampiezza/ come un dio saldi in lui/ l’eroe di ogni azione”.
Qui l’autrice recupera la perdita nella genesi dell’altro.