Giuseppe Neri, Il sole dell'avvenire

01-10-2004

Il sole dell’avvenire, di Ferruccio Monterosso


Dopo L’uccello di Chagall (1983), Verso il terzo millennio (1987), L’ultima dogana (1990) e Bolero (1999), Giuseppe Neri ci propone Il sole dell’avvenire.
Uno dei caratteri più evidenti di questo romanzo, ambientato negli anni Venti (quando "il padrone era il signor padrone", p. 13), è la sua "coralità".


Si muovono infatti nel suo decorso uomini e fatti, case e cose, rumori e silenzi, gioco e lavoro, piane sconfinate e pendici montuose e distese marine, furia degli elementi e squarci di sereno, operazioni militari e impegni civili, scontri drammatici e pacifiche stasi idilliche, gente vista collettivamente nelle comunità di centri abitati, e individui singoli. Quanto alla forma, prevale la fluidità narrativa, spesso briosa, con –però – anche pensose riflessioni gnomiche.
Gente, quella che popola le presenti pagine, appartenente per lo più a classi sociali molto umili quali proletariato agricolo (badilanti) o piccola manovalanza (terrazzieri, stagnari, ciabattini), più qualche soldato (Francesco Del Turco) ecc., segnati da nomi e soprannomi –come spesso accade– curiosamente pittoreschi: Tituccio Bellanima, Corripiano, Giovannaccio di Menicantonio, Gnazio e Girò, Impelato, Mangiapane, Tippitippi ecc, e (fra le donne) Concetta la zizzuta, Filomena la sciancata… Ma non mancano siti e persone di possidenti, borghesi o aristocratici: "tutti convergono verso quell’unica meta: il palazzo di Tricò" (p. 29); l’avvocato Nardone; "il compagno deputato E. Riboldi" (p. 102) e altri.
Salta –agli occhi e alla mente del lettore– la grande padronanza che Giuseppe Neri ha della penna, la sua straordinaria capacità descrittiva. Tale dote è ad es. evidente nell’intreccio e composito (che l’autore sa sapientemente costruire) fra tinte coloristiche e vibrazioni foniche: le une, da lui osservate in natura nei vari momenti del giorno con occhio attentamente scrutatore; le altre, raccolte dal suo orecchio fine nel corso delle proprie esperienze di vita e di cultura. Il tutto, portato sulla carta con poliedrica fantasia e (ripetiamo) con perizia rappresentativa.
Così ad es. –se, appunto, la Natura non solo "s’inorgogliva della gamma sterminata delle sue cromìe, dei suoi rossi squillanti, degli azzurri cangianti e dei variegati toni di verde, dei pallidi gialli e dei fucsia arroganti", e non meno "per i suoi polverosi marroni, per i malinconici, crepuscolari, smunti grigi gozzaniani" –è pur altrettanto vero che nel paesaggio del micromondo di Colleforte "il catalogo", in secco contrasto col precedente colorismo accesamente screziato, "si restringeva sostanzialmente al bianco e al nero" (p. 7). Non è chi non veda l’efficacia espressiva di questo ampio passo.
Tratteggiati da Neri con altrettanta bravura sono i vari successivi momenti delle partite di caccia (che per chi ne è protagonista costituiscono– più che un passatempo, più che una passione– una vera e propria ragione di vita: anche se ciò ripugni a chi è contro l’attività venatoria). Infatti, lo scenario prende il lettore con straordinaria forza di suggestione: l’uzzolo con cui la cagna Lea guida (infallibilmente) i cacciatori nelle singole fasi; i momenti dell’agonia della folaga o della pavoncella già colpite a morte ecc…, tutto ciò è reso dal nostro autore con assai pertinente utilizzazione dei mezzi sia lessicali sia sintattici a disposizione.
E tale –spiccata, dunque– attitudine di Neri al figurativo (due altri esempi: qui "c’era una chiara diffusa e intensa", p. 64), è tutt’altro che esterno compiacimento formalistico, in quanto le note da lui via via siglate sono veritiere emozioni d’anima, espressioni d’una sensibilità spirituale autentica.
Il connotato marcatamente visivo prevale anche nelle venti pagine che vanno dalla 65 alla 85, di cui sono protagonisti un maestro elementare, il Cocchiara (e una ventina di suoi "ninni"): "corpulento, con una grande epa che debordava dalla cintura dei pantaloni e una barba fluente, bianca, che gli scivolava fin sopra la pancia ecc." (p. 65). Elemento visivo che ancora, a volte, si allega a quello auditivo: come avviene ad es. Quando la "risatina" dello stesso maestro "gli gorgogliò nella gola" (p. 69).
Contenuto e forma esplodono, in esiti quasi (o senza quasi) da romanzo dell’Horror, nel racconto del "gioco antico e crudele" (p. 36), anzi del rito atroce e spietato della passatella (pp. 36 e segg.). Mentre fuori imperversano condizioni atmosferiche pessime, la cantina di … Ntonio Segagna si affollava di clienti che –quasi per reagire a una opprimente "pucundria"– si imbarbarivano in una sarabanda che "mimava la capricciosità e la perfidia della vita, ne esaltava gli aspetti più arbitrari e imprevedibili, ne mostrava […] i lati […] più torbidi, […] sul filo di una palpabile tensione; esplodono, così, zuffe furibonde, vere e proprie risse. Gioco capace di scatenare gli istinti più oscuri e primordiali, di sobillare le pulsioni meno governabili, la passatella era […] metafora involontaria dell’imprevedibilità e degli eccessi della vita […]. Più che un gioco, era una piccola guerra con la sua ferocia e le sue vittime" (pp. 37-38).
Una visione orripilante, di cui potremmo riferire altre pesantissime componenti. Ci limitiamo a citare, quale corollario raccapricciante, la malefica presenza del vino: quasi vero e proprio perverso personaggio "vivente", truce e balordo, oscuro veemente implacabile, osceno "beveraggio" tracannato "con perfida soddisfazione" (id.).
Un altro quadro molto coinvolgetene, ma impostato su un registro del tutto diverso, è quello scolpito dal capitolo che si intitola Un sardo malandato. Gli elementi che lo distinguono sono il particolare paesaggio immediatamente successivo a una grande inondazione: "sotto quella scorza di fango indurito, non si agitava nessun alito vitale"; "il molteplice svariare del brontolio del fiume"¸ l’"oscuro smarrimento", il "timore panico" che –"furtivo e opprimente"– assaliva i contadini; "la quiete della notte […] esaltata da un remoto abbaìo di cani" (pp. 52-55).
In questo contesto grevemente naturalistico, lo scrittore avverte nella gente lo "dipanarsi [di] confusi ricordi" (p. 54) di comizi riguardanti ingiustizie e sfruttamenti e riscatti e inneggianti a "un non meglio identificato sole dell’avvenire" (il titolo del libro!). "Ricordi accantonati, smarriti nel fondo nero della memoria e che ora, improvvisamente, ritornavano a galla" (p. 58).
Ebbene: su questo schermo così striato e mosso –occupato per una parte dalla presenza di una natura imbronciata e anzi minacciosa, e per l’altra da una folla agitata velleitaria e urticante –si pone un isolano della Sardegna passato sul continente, Antonio Gramsci. Fisicamente quasi deforme, pessimista austero e razionale, impenetrabilmente serio, disquisitore rigoroso di meccanismi e processi produttivi, ironico fino al sarcasmo.
Del resto, molti sono, nel libro, i riferimenti alla questione sociale: ovviamente, più in chiave narrativa che critico-analitica. Ma le menti illuminate ritenevano che "l’impresa più ardua era modificare il modo di pensare di quei contadini, […] incriminare quella loro mentalità che traeva sicurezza dall’ossequio al padrone […] e nell’accettazione della gerarchia rinsaldavano il loro fatalismo e si assicuravano un’esistenza rassegnata, ma priva di complicazioni" (p. 63).
Si colloca fra socialità e arte lo sfondo –stupendo!– in cui si staglia la figura la figura di Pellizza da Volpedo (peraltro non nominato). Centrato dal nostro scrittore mentre –di spirito profetico dotato– è attratto e acceso dalla "nuova religione" della solidarietà, dalla religione "laica, ingenua, umanitaria, utopica" del socialismo, pensa anche (influenzato da Tolstoj e Zola, da De Amicis e Segantini) a rappresentare con dignitosa eloquenza "la protesta contadina", a organizzare uno sciopero "fiumana", in sacrosanta difesa dei diritti dei diseredati e degli oppressi.
Ma soprattutto, con "febbrile inquietudine", concepisce e via via realizza il proposito d’una "immensa tela bianca" in cui si imprima –senza "scivolare nel bozzettismo e nel folklore"– un’arte che sia non "splendido arroccamento […ma] strumento capace di fermare e dilatare […] nelle membra affaticate di un emigrante l’incanto, la misteriosa malinconia, il dolore della vita" (pp. 80-83).
L’epilogo del libro inalbera una definizione della "macina della Storia" e una dichiarazione delle sue conseguenze: in modo essenziale ed epigrafico, perentorio. "La macina della Storia triturò, con il suo folle, inesausto, incessante vorticare, eventi grandi e piccoli, frantumò illusioni, incenerì utopie, impose nuovi idoli e nuovi miti, mettendo in scacco chi pretendeva di scorgere, sotto quel cieco, furioso, dissennato turbinare, una logica, un razionale svolgimento dei fatti […]. Nel suo capriccioso e inarrestabile vorticare, la macina della Storia […] distrusse sogni e speranze e anziché plasmare l’uomo nuovo, lasciò quello vecchio alle prese con i problemi di sempre" (pp. 105-106).
Una conclusione epicamente amara e al tempo stessa asciutta, in apparenza quasi impassibile (ma il pathos dello scrittore non manca, antiretoricamente rattenuto). Una conclusione, inoltre (crediamo) vicina alla realtà, alla verità.