Giacomo Leronni, La polvere del bene

07-06-2010
Per certi versi , di Pasquale Tempesta

Le vaste contrade della poesia. È arduo attraversarle senza imbattersi nell’amarezza del disincanto a confronto di una realtà che tutto affastella, nel bene e nel male. Lasciando – ebbe a scrivere Mario Luzi - «macerie, murerie, carpente / sospeso un polverio». Ispirandosi a questi versi e a quelli di Cesare Viviani, Giacomo Leronni ha impostato il suo primo libro di poesia, dal significativo titolo Polvere del bene, dopo che alcuni suoi precedenti testi erano apparsi su riviste di settore. L’immagine di un pulviscolo prepotente che ricopre come un manto sottile, indistinto ma insidioso, ogni cosa si presenta prepotente già nella pagina di apertura: «Indugia la polvere / pondera il segno / la cifra da censire / nell’intrico dei fini / voce renitente…». E, subito dopo, un punto di domanda: «A chi concederla / per dove approssimare il buio / in quale solco / disperdere l’ardire?». Un’immagine, quella della polvere, ripresa anche in chiusura del volume laddove è rievocata quella fase dell’esistenza in cui, appunto, «nella polvere del bene / quando splende la morte rigorosa / ti ritiri con un soffio» e «il bene sminuzzato, il dolore / rigano l’oscurità». Nelle settanta liriche, tutte rigorosamente senza titoli di testa (riportati invece, per ciascuna, nell’indice) l’autore non sembra smarrirsi nel raffronto fra il bene e il male, fra il giusto e l’iniquo, fra l’eterno e il transeunte; ma con consapevole coscienza compie le sue scelte di campo e si preoccupa di trasmettere con garbo e misura il suo intimo sentire, attraverso un linguaggio semplice e lineare, animato peraltro da una prorompente forza interiore.