D'Ennery e Cormon, Le due orfanelle

22-06-2015

Cercasi orfanelle, di Nicola Fano

Guido Davico Bonino ha ritradotto “Le due orfanelle”, capolavoro di imperfezione del teatro popolare dell'Ottocento. Nonché macchina (perfetta) da successo, di Adolphe D’Ennery e Eugène Cormon

Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare de Le due orfanelle. Ci sono nomi/cose/storie che affondano le radici nell’immaginario popolare senza che se ne sappia troppo nei particolari. Le due orfanelle fa parte di questa famiglia di mattoni dell’immaginario popolare. I cinefili, forse, possono ricordare con nettezza il film di David W. Griffith (1921, nella foto accanto) che pare all’epoca sia stato un enorme successo. Come pure fu un successo, subito dopo la guerra, la memorabile parodia che ne fece Mario Mattòli, I due orfanelli, protagonisti Totò e Carlo Campanini (un grandissimo nell’empireo dei comici popolari italiani, all’epoca non sufficientemente valorizzato).

Ebbene, nella mia ignoranza pensavo che all’origine di tutto ci fosse un feuilleton, un romanzo d’appendice, poi trasformato in successo teatrale, nella Parigi di fine Ottocento. E invece, udite udite, le cose andarono al contrario: Le due orfanelle è un testo teatrale che all’epoca (1874) ebbe così tanto successo da dover essere presto trasformato in romanzo a puntate. Desumo queste curiose informazioni (ah, che soddisfazione il primato del teatro!) dalla benemerita edizione di Le due orfanelle proposta or ora da Manni (170 pagine, 15 euro) nella traduzione (e con la preziosa introduzione) dell’ancor più benemerito Guido Davico Bonino. Se avete qualche pur vaga propensione per il teatro, non perdetevi questo libro. Ma la ragione della sua rilevanza non sta tanto nella trama della vicenda, quanto nella costruzione del copione e nella storia del suo successo.

Cominciamo, comunque, dalla trama: siamo alla vigilia della Rivoluzione Francese e due ragazze di provincia cadono nella rete della cattiva aristocrazia parigina. Una di loro è figlia di povera gente, l’altra è effettivamente orfana; una è protettiva, l’altra, la più piccola, è cieca ma la scienza le dà qualche speranza… Che per loro, alla fine, le cose si sistemino è chiaro fin dalla prima battuta: ma il plot (in cinque poderosi atti) consiste nelle angherie che sono costrette a subire tra don rodrighi e innominati. Nel senso che la sfortuna si accanisce sulle brave ragazze per mandare avanti la storia. Una trama perfetta per avere successo in quel genere teatrale che Davico Bonino perfettamente descrive: il mélodrame. Tinte forti, drammoni, sentimenti che si sfilacciano per tenere legato lo spettatore più a lungo possibile: questa la sostanza di un tipo di teatro che, di fatto, fu inventato dagli autori de Le due orfanelle, Adolphe D’Ennery (il genio della coppia) e Eugène Cormon (l’uomo d’ordine dei due). In pratica, il mèlodrame è gemello scenico del romanzo d’appendice. E della peggior specie.

Perché? Ecco la seconda ragione dell’interesse che suscita questo libro. Perché a leggere oggi Le due orfanelle (migliaia di repliche, all’epoca, incassi colossali nelle numerose trasposizioni cinematografiche lungo tutto il Novecento) se ne colgono soprattutto le imperfezioni: è una galleria interminabile di scene tinca. Sapete che cosa sono le scene tinca, a teatro? Quelle nelle quali qualcuno (un personaggio tinca) racconta qualcosa che è successo fuori dalla scena e lo fa solo per mandare avanti la storia: nel senso che in assenza della sua spiegazione (di norma prolissa e noiosa), gli spettatori non capirebbero nulla del seguito. Intendiamoci: è un trucco inventato dai tragici greci per inserire fatti di sangue nelle loro trame evitando di far ammazzare o accecare gli attori sul palco… Ma il fatto è che qui tutto il testo è fatto di scene tinca: tutte le cose succedono altrove e in scena vengono solo raccontate. Ovvio, direte voi, dal momento che la trama è chiamata a contenere troppe vicende. Eppure la peculiarità del teatro è altra: a teatro le cose devono capitare in diretta, devono essere le battute a far succedere i drammi e le storie.

Da grande uomo di teatro qual è, Guido Davico Bonino glissa su questa palese contraddizione del testo che ci propone. E non potrebbe essere altrimenti: perché queste Due orfanelle finalmente disvelate vanno accarezzate per il verso del loro pelo, ossia come una macchina da soldi e da sogni. Sogni a buon mercato: il pubblico si accontentava di ascoltare qualcuno che glieli raccontava, piuttosto che viverli in prima persona.