Davide Gatto, Il male minore

25-08-2011

Nel tempo vasto che avanza e corrode le cose, di Giuseppe Amoroso

Cose, oggetti, materia comune dell'uso domestico si addensano in una dimensione irreale, occupano spazi fantastici e fanno piegare l'ordine della visione logica verso esiti deformanti. A muovere questo transito di cronachistica rassegna del quotidiano verso ombre, simboli, inganni, è il senso del vuoto, la «paura del tempo vasto che avanza e corrode le cose, una specie di aria acida, di vento atomico che consuma e annienta le cose e ci lascia nel vento cosmico». Fluttuanti come «astronave alla deriva», gli uomini sono travolti da un'atmosfera indefinibile, misteriosa eppur carica di pesi terreni. Queste sensazioni prova il protagonista del primo dei sette racconti raccolti da Davide Gatto in "Il male minore" (Manni).
L'unica salvezza può venire dalla circolazione del mondo esterno, dal potersi aggrappare ad essa per trovare ancoraggio nella landa desolata del tempo. Gatto, in tale clima di rarefatta valutazione acronica inserisce un discorso politico sulle guerre dettate da ragioni economiche e dal bisogno di portare ovunque democrazia «mettendo le mani nel sangue». E mentre i personaggi dibattono su siffatti problemi, il sole, le cose abbandonate pure dalle ombre sono «povere cose piatte e trasparenti». Si assiste a un continuo gioco di finzione e verità su cui l'autore fonda un racconto paziente e sfuggente, minuzioso ed energico con un amanuense che trascrive grandi opere «senza capire nulla» e soprattutto senza attendersi alcun premio nell'aldilà. Analogamente anche in certi angoli più ripiegati di pagina, lo scrittore cerca di captare le minime risonanze della realtà minuta nel cosmo, per edificare disegni immaginifici, un' «uniforme nebbia di luce», una completa fusione di immagini diverse, la lotta per riempire la «distesa sconfinata» dei giorni.
Lo scenario è sempre quello labile, ammiccante e inconsistente di figure che «sciamano spinte alle spalle dall'ultimo sole» e di un mondo che si è fatto «stretto», dal momento che «quello che succede è come se succedesse nel cortile di casa nostra». Il momento più vero è la notte, infinita, «sempre uguale a se stessa». E quando l'orizzonte cambia gli uomini continuano ad abitare le loro differenze «come si abita una fantasia».
Una prosa denotativa, puntellata su reiterate ripetizioni di parole-chiave, non monotona ma ipnotica si dedica a cercare una geometria di voci problematiche, resistenti, tenaci nel loro spostarsi da un luogo all'altro di situazioni abbaglianti in cui i profili lottano per trovare un rilievo in paesaggi che prendono consistenza nelle «prima luminescenza del giorno».

E la voce del racconto si ritrae e si ripresenta, partecipe e indifferente