C'è un grande prato verde

29-09-2012

Il porto franco di un odioso razzismo, di Filippo La Porta

Scorrendo le pagine di C’è un prato verde, a cura di Carlo D’Amicis (Manni) – quaranta racconti  relativi alle giornate del campionato serie A, affidati ad altrettanti scrittori – mi chiedevo se sia opportuno alimentare in qualsiasi modo la mitologia del calcio, ovvero la mitologia più diffusa, invadente, alienante della contemporaneità, legata per di più allo sport probabilmente più corrotto, almeno in Europa. Forse aveva ragione Corrado Sannucci, grande giornalista sportivo, scrittore e tifoso romanista, che in La notte del calcio (2004) scriveva perentoriamente: «Una persona di rigidi principi dovrebbe sognare la scomparsa della propria squadra». E, rivolgendosi al lettore: «Non tifare più… se ritieni di poter abdicare alle tue prerogative di cittadino». Nel suo reportage relativo alla 19esima giornata Nicola Lagioia appare consapevole della morte del calcio come sport, e della sua rinascita come «porno deluxe nelle pay tv», ma continua a interessarsene in quanto «specchio fedele della società».  Nei tanti testi che compongono questo diario multiplo il calcio è un pretesto: per divagazioni morali, proiezioni psicologiche, esibizione di sentimenti personali, analisi socio-politiche, riflessioni antropologiche. Però rimane lì, inamovibile, luogo di una utopia improbabile, e soprattutto di una passione individuale disinteressata. Soffermiamoci sulle uniche tre presenze femminili. L’incipit di Pulsatilla è memorabile: se il cervello del maschio pesa 1.400 grammi e quello della femmina 1.200 «è scientificamente appurato che nei duecento grammi di differenza ci sono i neuroni  a comprendere la regola del fuorigioco». E dopo: «A me piace lo sport, solo che se c’è la palla non ci sono io». Perciò è felice quando apprende dello sciopero dei calciatori. Non troppo diverso l’attacco del reportage di Elisabetta Liguori: «Io e il calcio siamo in competizione. Se c’è lui di solito non ci sono io, ma se, per caso, ci siamo entrambi, allora è la guerra». Si potrebbe ricavare una refrattarietà femminile al nostro gioco nazionale se non ci fosse anche il “pezzo” di Valeria Viganò, che invece del tifoso ultrà (interista) presenta le caratteristiche tipiche di  tenera  faziosità e vittimismo lamentoso (commentando il derby milanese: «Uno dei tanti rigori finti contro i nerazzurri…»). Ma torno alla domanda iniziale. La pervasiva liturgia calcistica richiede una (impietosa) radicalità di sguardo diversa dalla colorita  prosa d’arte che il libro ci propone? Sì e no. Sì perché il calcio esprime i peggiori impulsi (per lo più maschili) razzisti, bellici, primordiali, distruttivi, e anzi spesso la cosiddetta “curva” anticipa involuzioni  del costume (il migliore sociologo degli stadi è stato il compianto Valerio Marchi). No, perché il calcio permette anche di sublimare, di decantare quegli stessi impulsi razzisti, bellici, eccetera. È diventato un business milionario, tendenzialmente criminaloide, e rischia di essere per migliaia di giovani l’unica identità e appartenenza. Forse ha perduto l’innocenza e ha ragione Sannucci a invitarci a non tifare più. Però è anche un gioco ed è giusto che qualcuno continui a trattarlo come un gioco, capace di soddisfare il più delle volte in modo incruento e  non truffaldino il naturale, legittimo bisogno di epicità.