Se questa è democrazia

Se questa è democrazia

sottotitolo
Paradossi politico-culturali dell’era digitale
copertina
anno
2009
Collana
Categoria
pagine
176
isbn
978-88-6266-108-9
16,15 €
Titolo
Se questa è democrazia
Prezzo
17,00 €
ISBN
978-88-6266-108-9
La crisi della democrazia rappresentativa e lo sviluppo di nuove forme di partecipazione dal basso attraverso Internet sono due processi che, in barba alle previsioni dei profeti della “democrazia elettronica”, sembrano progredire parallelamente, senza trovare un punto di convergenza. La tesi proposta in questo libro è che le cause non vanno cercate solo nella resistenza della casta politica nei confronti di un medium che ne mette in discussione il monopolio professionale: il vero problema è che la cultura di Internet esprime una vocazione “impolitica”. L’interesse dei “cittadini della Rete” si concentra sulla democratizzazione dell’economia e sulle relazioni personali più che sulla politica, la quale viene vissuta come ostacolo alla libera evoluzione della tecnica, del mercato e di nuovi stili di vita, più che come arena in cui impegnarsi per promuovere gli interessi della società civile. La diffusione dei nuovi media favorisce inoltre la tendenza alla privatizzazione dello spazio pubblico, alimentando l’illusione che si possa fare a meno della politica. Un’illusione che non solo non contribuisce a indebolire il potere politico, ma ne determina l’imbarbarimento, favorendo derive carismatiche e populiste.
Introduzione
 

L’interesse che il mio ultimo libro (Cybersoviet, Raffaello Cortina 2008) ha suscitato da parte degli studiosi che conoscono il percorso di ricerca che ho intrapreso negli ultimi venticinque anni, è dovuto, fra le altre cose, alle riflessioni autocritiche che sviluppa in merito ad alcune tesi avanzate in opere precedenti (Formenti, 2000 e 2002). Questo nuovo lavoro, che segue il precedente a pochi mesi di distanza, si propone di chiarire ulteriormente la natura e le dimensioni della “svolta”, a partire dalla presente Introduzione, in cui cercherò di chiarire il contesto teorico-metodologico in cui essa è maturata.
Provenendo da una formazione teorica “post marxista”, ispirata alla tradizione dell’operaismo italiano, ho vissuto con estremo interesse il dibattito fra “modernisti” e “postmodernisti”, svoltosi all’inizio degli anni Ottanta su riviste come “aut aut” e “Alfabeta”. In particolare, pur non schierandomi dalla parte dei postmoderni, ho accolto positivamente le provocazioni della cultura poststrutturalista francese e dei teorici italiani del “pensiero debole”, nella misura in cui mi pareva avessero il merito di indicare quali direzioni (analisi, da un lato, degli effetti economici, politici e culturali della rivoluzione informatica e dell’evoluzione dei media elettronici, dall’altro, della crisi irreversibile della composizione di classe che aveva alimentato il ciclo dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, nonché delle ideologie e delle forme organizzative che li avevano caratterizzati) avrebbe potuto e dovuto imboccare un pensiero post marxista all’altezza dei tempi, prendendo congedo non solo dall’ortodossia marxista “ufficiale”, ma anche dai “catastrofismi” del pensiero critico di ispirazione francofortese.
Un secondo passaggio cruciale della mia esperienza formativa è stato il confronto, da un lato, con l’epistemologia della complessità, dall’altro con gli autori che, problematizzando il concetto di secolarizzazione, hanno messo in luce l’emergenza di processi di “reincantamento” del mondo associati al rapido progredire della tecnoscienza; due direzioni di ricerca confluite in tre lavori (Formenti, 1986, 1989, 1991) sulla valenza “mitico-utopica” dei nuovi paradigmi scientifici e tecnologici. Infine, a partire dalla metà degli anni Novanta e in corrispondenza con l’esplosione della rivoluzione digitale, il mio interesse è tornato a concentrarsi sulle trasformazioni del modo di produzione capitalistico (transizione dal fordismo al postfordismo, avvento della società dell’informazione e del capitalismo “immateriale”) e sull’emergere di una nuova composizione di classe (centralità dei knowledge workers). In quest’ultimo passaggio, tuttavia, non sono andate sprecate le acquisizioni delle precedenti tappe, che mi hanno anzi aiutato a riconoscere sia le radici mitico-ideologiche dell’utopia digitale, sia il filo rosso che connette l’esperienza dei movimenti della seconda metà del Novecento alle nuove aspirazioni di democrazia elettronica (Rodotà, 2004). Nel frattempo era avvenuto l’incontro con la sociologia della comunicazione, imposto dall’esigenza di approfondire il ruolo delle tecnologie e delle culture dei media nelle trasformazioni socioeconomiche in corso, e successivamente sfociato nell’attività di docente di Teoria e tecnica dei nuovi media all’Università del Salento.
Rispecchiando questa complessa stratificazione di esperienze intellettuali, i primi saggi – usciti rispettivamente nel 2000 e nel 2002 – che ho dedicato alla società nell’era di Internet, si collocano alla confluenza fra due paradigmi: teorie del postfordismo da un lato, e teorie del progressivo riassorbimento della sfera politica in quella della comunicazione dall’altro. Ad accomunare questi due paradigmi, che pure appartengono a differenti ambiti disciplinari, sono, come ho evidenziato altrove (Formenti, 2008): 1) il giudizio sostanzialmente positivo sulla crisi del politico in generale e dello stato nazione in particolare, valutati come fattori di ampliamento dello spazio di libertà della società civile; 2) la convinzione in merito all’esistenza di una soggettività diffusa (identificata nei produttori-consumatori di contenuti mediatici dagli uni, nell’intelligenza sociale del lavoro vivente in tutte le sue articolazioni dagli altri) in grado di esprimere comportamenti autonomi nei confronti delle tradizionali élite del potere (politico, economico, culturale); 3) una visione “americana” (più vicina cioè alla tradizione populista, libertaria e anti-intellettualista propria della New Left d’Oltreoceano che alla tradizione “avanguardista” della sinistra europea) degli scenari di allargamento della democrazia (di “empowerment” dei soggetti individuali e collettivi) resi possibili dalla rivoluzione digitale. Nei già citati lavori di qualche anno fa, il mio punto di vista non era molto distante da questo approccio, ma se ne distingueva sotto due aspetti non marginali: da un lato, non ho mai rinunciato allo sforzo di collegare le nuove forme di soggettività alla mutata composizione di classe, dall’altro lato, ho sempre cercato di non confondere la crisi della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni con una presunta “fine del politico”. Per queste ragioni, sono sempre stato critico sia nei confronti del concetto di “moltitudine” (Hardt, Negri, 2002), caro al pensiero neo-operaista, sia nei confronti dell’euforia postmodernista che induce alcuni studiosi dei media (Abruzzese, 1996 e 2004) ad annunciare il tramonto delle vecchie élite mediali.
Nei sei anni che separano i miei ultimi due lavori (Formenti, 2002 e 2008), queste divergenze si sono tuttavia approfondite, al punto da indurmi a estendere la critica anche contro alcune tesi che io stesso avevo condiviso con i modelli teorici appena citati. In particolare, sono oggi convinto: 1) che i processi di colonizzazione commerciale del cyberspazio – che hanno determinato una rapida e radicale “popolarizzazione” dei contenuti – non abbiano affatto avuto l’effetto di democratizzare la sfera dei consumi mediali (né, tanto meno, quella del dibattito politico) ma, al contrario, configurino una palese rigerarchizzazione dei rapporti economici e politici, nonché delle pratiche di produzione e consumo culturale; 2) che la ripresa di controllo da parte di governi, imprese e agenzie transnazionali sulle relazioni sociali mediate dal computer sia quasi totale, in barba alle fandonie sull’architettura “intrinsecamente anarchica” di Internet; 3) che le celebrazioni della “fine del politico” tendano a legittimare, sia pure inconsapevolmente, i processi di distruzione della sfera pubblica e il suo integrale riassorbimento nella sfera privata, contribuendo a spacciare il chiacchiericcio “intimista” (Sennett, 2006) che dilaga dai reality show televisivi ai social network di Internet per autogoverno delle moltitudini (vedi la celebrazione del presunto significato politico della vittoria dell’ex deputato transgender di Rifondazione Comunista, Vladimir Luxuria, all’Isola dei Famosi). L’ideologia “transpolitica” (De Kerckhove, Susca, 2008) dei mediologi postmodernisti tende, da un lato, a oscurare la dura realtà della messa al lavoro gratuita di centinaia di milioni di utenti/consumatori da parte del capitale informazionale, dall’altro lato, ad attribuire alle leadership che emergono nelle comunità online (non dissimili dal fenomeno degli “opinion leader”, già studiato in relazione ai tradizionali media broadcast) un ruolo politico (anzi, transpolitico) “progressivo” che esse non hanno (o che, perlomeno, non hanno di per sé).
Si tratta, come si vede, di una svolta radicale, che mi ha indotto a mettere in discussione il giudizio sulla Rete come luogo privilegiato della nascita di nuove forme di democrazia diretta (anche se tale giudizio mantiene la propria validità se riferito alle prime fasi della storia di questa tecnologia, e anche se non si può escludere che essa possa tornare a svolgere tale ruolo in futuro). Mi è quindi parso opportuno, onde evitare che qualcuno possa pensare che la svolta sia il frutto di una improvvisa “conversione”, dare un seguito a Cybersoviet pubblicando questo libro, che raccoglie una serie di testi – redatti fra il 2004 e il 2008 – che hanno preparato e anticipato il cambiamento di prospettiva. Quasi tutti questi lavori sono già usciti su riviste o volumi collettanei, per cui mi sembra doveroso – benché abbiano subito tagli, aggiunte e rimaneggiamenti radicali – citarne le precedenti versioni. Il primo capitolo è uscito, con il titolo Internet Comunity, sulla rivista “Communitas” (n. 1, febbraio 2005); il secondo è uscito, con il titolo Comunità virtuali, riconoscimento e crisi della democrazia rappresentativa sulla rivista “Quaderno di comunicazione” (n. 4, 2003/2004); il terzo è apparso, con il titolo Comunità virtuali, stato a rete e crisi della democrazia rappresentativa sulla rivista “Gli argomenti umani” (n. 1, 2004); il quarto è stato pubblicato, con lo stesso titolo, dalla rivista “Parole chiave” (n. 34, 2005); il quinto è uscito, con il titolo, Le luci del retroscena sulla rivista “Quaderno di comunicazione” (n. 5, 2004/2005); il sesto è apparso, con il titolo Mitologie della trasparenza, nel volume collettaneo La vita online. Strategie di costruzione del sé in rete (a cura di L. Spedicato, Besa Editore, Lecce 2007); il settimo è uscito, con il titolo Aporie dell’ibridazione come metodo di ricerca sulla rivista “Quaderno di comunicazione” (n. 9, 2008), al pari dell’ottavo, uscito sulla stessa rivista (n. 7, 2007) con il titolo Neo, ovvero la fine della storia nel mito di Matrix; il nono è il testo di una comunicazione tenuta all’Università del Salento nel corso del convegno di studi “Cosmopolitismo: moralità, politica, cultura” (13, 14 ottobre 2008); infine il capitolo conclusivo è la riscrittura di un articolo, dal titolo La spirale del silenzio e la necessità di una nuova grammatica, pubblicato sulla rivista “Alternative per il Socialismo” (n. 6, luglio-settembre 2008). Un’ultima avvertenza: il criterio con cui ho scelto i materiali della prima parte è diverso da quello che ho seguito per la seconda parte: i primi sono approfondimenti e “variazioni sul tema” dei principali argomenti affrontati in Cybersoviet, i secondi trattano invece temi rimasti “laterali” nel precedente lavoro: dalla nefasta influenza che le “ideologie” del popolo della Rete hanno esercitato (e continuano ad esercitare) sulle metodologie della ricerca etnografica online, alla crisi della sinistra radicale in Italia come “effetto collaterale” dell’apartheid linguistico cui le forze politiche che si collocano in quest’area vengono sottoposte da parte dei media, apartheid che esse stesse contribuiscono ad alimentare a mano a mano che si abbandonano alla fascinazione del “nuovo” (Luxuria docet).